Nuove alleanze educative dopo la morte di Celeste
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24 ottobre 2024
Ascolti il radio giornale e, per l’ennesima volta, è il racconto di un brutale femminicidio.
Questa volta ti riguarda più da vicino, perché è successo a pochi chilometri da casa tua.
Celeste Palmieri era di San Severo, una donna bella ma non libera. Una donna che viveva con l’incubo di un marito violento dal quale si stava separando.
Aveva cinque figli e quella mattina era andata a fare la spesa. Il braccialetto elettronico, che avrebbe dovuto segnalarle la vicinanza fisica del marito, non ha funzionato.
Toccanti le parole della figlia più grande durante la fiaccolata organizzata in memoria della mamma: “Ai miei figli insegnerò a non accettare nemmeno uno schiaffo solo, nemmeno uno, perché si comincia così, si dà l’autorizzazione per uno schiaffo e poi diventano uno schiaffo più un pugno, poi si perdona perché chi lo fa è capace di perdonare. Il perdono va bene però l’accettazione di queste cose no”.
Cosa bisogna aspettare ancora per comprendere che qualcosa non funzioni ancora?
Non funziona il braccialetto, ma probabilmente quel braccialetto non sarebbe servito lo stesso.
È qualcosa di più sostanziale a non funzionare. È quella rivoluzione culturale vera che manca, il coraggio di prendere una posizione anche al prezzo di perdere “le cose convenienti”, anche mentre a noi sta andando tutte a gonfie vele e ci viene da pensare che il problema riguardi un’altra, non me.
Manca quella cultura che ti porta a non chiudere più gli occhi, o peggio, abbassare la testa di fronte ai comportamenti collettivi sbagliati.
Viviamo l’era dell’individualismo e del personalismo che fanno perdere il senso alla coscienza collettiva. Ce lo insegna il “sistema sociale”, sempre troppo preso a parlare delle persone e non dei contenuti, delle velleità personali e non delle istanze comunitarie, del sacrificio di chi è ai margini.
E in un contesto così gravemente debole, chi dovrebbe creare per noi i presupposti di una società migliore ci porta, invece, al degrado morale e alla sofferenza (economica, umana e sociale).
“È il tempo delle “VERE” ALLEANZE EDUCATIVE”, questo il monito della cooperativa Sociale AGAPE all’indomani della morte di Celeste.
Sono importantissime le iniziative delle associazioni, delle amministrazioni, della Chiesa e di tutto il mondo sociale, ma muoiono ancora troppe donne per mano di maschi violenti. Il passo avanti c’è stato nella sensibilizzazione, nell’apertura di tante vittime di violenza ad affrontare il problema. Tuttavia, i numeri sono ancora drammatici.
Sono circa 130 i casi all’anno in Italia. Significa che in Italia ogni due giorni (circa) viene uccisa una donna. Se ne contano migliaia nel mondo. Numeri da genocidio.
Come raccontano anche alcuni documentari che Netflix sta riportando sulla sua piattaforma. Si tratta di storie di donne americane che hanno subito violenza dai loro padri, patrigni, mariti. Serial killer che hanno fatto sparire centinaia di ragazze, padri che hanno fatto prostituire le proprie figlie al compimento dei 13 anni. Storie agghiaccianti che mi hanno segnato, perché lontane dal mio mondo.
Eppure è proprio questa lontananza che ci fa male. Fa male alla comunità. Bisogna apprendere le cose del mondo e sentirsi vicine ad esse. Serve l’empatia. Gli effetti della violenza di genere si ripercuotono sul benessere dell’intera comunità.
Celeste forse non era sola nella sua battaglia, ma la vicinanza di chi le voleva bene non è bastata a farla sopravvivere all’ira di un uomo.
Per essere concreta, bisognerebbe avere la stessa rabbia trasformata in coraggio dalle più di 100 calciatrici professioniste di 24 Paesi che hanno inviato una lettera a Gianni Infantino, presidente Fifa, in segno di protesta contro l’accordo di sponsorizzazione con la compagnia petrolifera saudita Aramco, diventata una delle socie mondiali principali della Fifa dopo un accordo firmato ad aprile e valido fino a fine 2027. Nel contratto di sponsorizzazione rientrano anche Adidas, Qatar Airways, Hyundai e Coca-Cola. La protesta, secondo le firmatarie, sarebbe indirizzata a “un regime autocratico che viola in maniera sistematica i diritti delle donne e criminalizza la comunità Lgtbqi+”.
Nell’accordo rientra la sponsorizzazione della Coppa del Mondo maschile 2026 e di quella femminile 2027.
Si tratta di soldi, di prestigio, del loro campionato del mondo a cui sono arrivate con sacrificio. Dei colossi che chiedono il loro volto per le sponsorizzate, della fama e del successo. Eppure queste donne, sebbene non coinvolte in prima persona in violazione dei diritti, hanno messo da parte tutto ciò per lottare al fianco delle donne arabe, che non hanno neanche il diritto di studiare, che sono murate vive dai loro maschi, che escono coperte da veli. Per lottare al fianco di tutte le donne del mondo.
Per loro il campionato mondiale e il prestigio non possono essere pagati al prezzo dei diritti umani violati. La questione è centrale. Affermano che “le autorità saudite hanno speso migliaia di milioni in patrocini sportivi per tentare di sviare l’attenzione dalla brutale reputazione del regime in materia di diritti umani, ma il trattamento delle donne parla da solo”.
Tra le firmatarie anche Elena Linari, 30 anni, difensore della Roma e della Nazionale azzurra, sempre pronta a schierarsi quando è necessario ribadire il valore dell’inclusione e della parità dei diritti.
Una protesta che arriva in concomitanza con uno de più grandi eventi tennistici organizzati in Arabia, la Six Kings Slam, la ricchissima esibizione saudita che ha visto trionfare l’azzurro Jannik Sinner, vincitore di un montepremi che ha destato scandalo.
Un urlo nel deserto? Chissà. Intanto l’urlo si è sentito, sebbene fosse in un deserto di petro-dollari. Un urlo che serve alla famiglia di Celeste e di tutte le vittime di violenza, a tutte le donne a cui non è data una possibilità, a tutti gli esseri umani i cui diritti sono violati.
Intanto questo è lo schiaffo che le sportive del mondo non accettano di ricevere da un mondo che offende i diritti non solo delle donne, ma anche di migliaia di lavoratori sfruttati.
Può partire da qui la nostra rivoluzione culturale?