ti uccido perchè non ti sacrifichi per me

21 luglio 2023

David Fontana, che colpì a martellate e sgozzò Carol Maltesi, è stato condannato a 30 anni, invece che all’ergastolo (come chiedeva il pm). Per i giudici di Busto Arsizio l’assassino, perdutamente innamorato, si era reso conto che lei, giovane e disinibita, si fosse servita di lui.

Secondo i giudici non vi fu premeditazione e nemmeno le aggravanti dei motivi futili o abietti e della crudeltà. E sempre per i giudici, il movente non è la gelosia: la ragazza aveva anche altri rapporti che l’uomo accettava e insieme realizzavano video hard postati su Only Fans.


Mi sconvolge il tentativo di dare sempre spiegazioni ai femminicidi, che altro non sono che delitti sulla proprietà: donne considerate roba loro dagli assassini. «Ha ucciso Carol perché non sopportava di tornare da solo». «Ha ucciso Michelle Causo per 1.500 euro». «Ha ucciso Giulia Tramontano perché era stressato». «Ha ucciso Melania Rea perché era lacerato fra la moglie e l’amante». C’è sempre la ricerca di un movente, sempre un’indagine che presuppone che il killer nasconda qualcosa… Ma il killer non nasconde mai niente: l’ha assassinata perché è una donna, essere su cui crede di avere diritto di vita e di morte.

È rassicurante considerare follie quei delitti, perché così il problema si circoscrive. Ma il corpo devastato di Carol, Michelle e tutte le altre racconta il controllo a cui tutte le donne, chi più chi meno, vengono sottoposte. In Italia ogni tre giorni una di noi viene uccisa. La furia scatenante è sempre il rifiuto da parte di lei. Abbiamo raggiunto posti di rilievo nella società, decidiamo di noi stesse, ma molti uomini non riescono ad accettarlo. E i più deboli uccidono per placare frustrazioni di potere. Come le loro madri, anche le compagne dovrebbero servirli, non fare come vogliono.

Per frenare la strage bisognerebbe risolvere le diseguaglianze. Lo so che l’ho scritto altre volte, ma l’argomento va davvero affrontato.

Il 48,9 per cento delle italiane non ha un impiego. Oltre una su tre non ha conto corrente. Il 60 per cento di chi denuncia violenze domestiche non è economicamente indipendente. Nelle famiglie, il 67 per cento del lavoro di cura pesa su di noi. Sono questi i moventi che spingono un femminicida a ritenere giusto punire la donna che, invece di sacrificarsi per lui, agisce di testa propria.

La sfida alle norme di una società patriarcale fa aumentare il tasso di femminicidi. A fare la differenza però è il contesto: un maggior sviluppo economico rappresenta infatti un fattore importante che facilita la sicurezza delle donne sfidanti. Per questo assicurare l’indipendenza economica deve essere sempre più un obiettivo comune.

Assistiamo a tanti convegni, dossier, articoli, dichiarazioni importanti anche del Governo per dire che tutto questo è inaccettabile e che le donne vanno protette. Questo accade soprattutto ogni 25 novembre, giornata dedicata alle donne, contro la violenza.

Nei dibattiti imbastiti intorno a questo 25 novembre si è parlato molto di violenza economica perpetrata ai danni delle donne. Tanto si è detto di recente in termini di aiuti ai centri antiviolenza, soprattutto per denunciarne la carenza. Un monitoraggio di Action Aid ha evidenziato come i provvedimenti emergenziali (Reddito di Libertà, Bando d’emergenza) presi durante la pandemia abbiano faticato a trovare i destinatari.

Quelle che però vanno perseguite con determinazione e riconoscimento sono le misure per la crescita del genere femminile che, è inutile girarci intorno, ha il suo fulcro nella (più volte da me citata) indipendenza economica e, quindi, nel lavoro. Ma se la nostra Costituzione, nell’immediato dopoguerra, stabiliva, all’articolo 1 (nientemeno) che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, perché questo monito non deve valere anche per l’altra metà della popolazione?

È vero sì che la mano pubblica ha l’obbligo di promuovere strutture ed azioni che favoriscano la crescita femminile, ma il primo motore, direbbe Aristotele, è quello del singolo. Per potere dare forma alla propria vita e affrancarsi dalla dipendenza, sotto ogni aspetto, da un partner. Che non è mai un padrone ma solo, ribadisco solo, un compagno (di vita o almeno di un tratto della stessa). Con l’avvertenza che compagno non significa padrone, dominatore ma, come ci ricordano ancora una volta le nostre radici latine, “colui che ha il pane (pani-) in comune (com)”.

Perché quando si è fortunate, certi principi te li inculca la famiglia. Ma quando si cresce in contesti meno emancipati è la società a doversi assumere l’obbligo di essere la famiglia, specie per le donne.

Mi capita spesso di parlare con una giovane donna di Foggia. Per lei è quasi un’abitudine la violenza psicologica (spero non anche di altro tipo) che riceve dal marito la sera. Per portare dignità economica ai suoi figli svolge due lavori e la sera, se prova a rilassarsi sul divano, riceve critiche vergognose.

Quando mi parla di questo provo a darle dei consigli, ma capisco che non sia facile metterli in atto quando non sapresti dove andare a trovare un tetto per te e i tuoi figli.

Ecco perché l’indipendenza intellettuale ed economica è la conquista più bella per un essere umano e, a maggior ragione, per una donna. È l’unica chiave per essere felici.

Forse la violenza o la molestia potrebbe subirla ancora, ma di certo avrà i mezzi per rispondere e per scegliere.

Ecco, l’emancipazione e l’autonomia sono i valori più importanti per tutti. A maggior ragione per noi donne la cui dignità non può essere offesa con sentenze come quella di Busto Arsizio.