Cari ragazzi, siete bravi ma (molto) poco arrabbiati

La settimana scorsa ho affrontato il tema del lavoro in Italia. La disoccupazione da un lato, il lavoro precario e non di qualità dall’altro.

Incontro tanti giovani, prevalentemente donne, che vorrebbero entrare nella società con il proprio contributo ma che, specie al sud, non trovano occupazione. Mentre, per chi un lavoro ce l’ha, molto spesso è difficile arrivare a fine mese oppure accontentarsi di lavori di seconda scelta, stagionali e precari.

Infatti un aspetto drammatico è quello del livello delle retribuzioni non proporzionali al caro vita

In questo senso, il peso più drammatico lo vivono proprio i giovani.

L’aspetto è duplice. Da un lato l’inoccupazione: tutti gli indicatori del mercato del lavoro convergono nel dimostrare che il nostro Paese è molto meno accogliente nei confronti dei giovani rispetto agli altri Paesi europei. Il tasso di disoccupazione nella classe d’età 15-29 anni è tra i più alti d’Europa: 22,1% contro il 13,3% della media EU27. I dati di flusso di fonte Eurostat confermano la difficoltà di uscire da questa situazione: la probabilità di trovare lavoro passando dalla condizione di inattività a quella di occupato è molto bassa, solo il 3% delle persone di 15-24 anni ci riescono nel nostro Paese, contro una probabilità quadrupla dei giovani in Finlandia, Danimarca e Olanda, e più che doppia in Belgio, Irlanda, Slovenia, Svezia e Austria.

Dall’altro la qualità del lavoro: la condizione dei giovani italiani non migliora neppure dal punto di vista degli occupati: tocca a loro la parte maggiore dei contratti meno graditi, e con una quota sempre nettamente peggiore rispetto agli altri Paesi europei. In Italia il 45% degli occupati di 15-29 anni lavora con un contratto a termine. 

Il mercato del lavoro, dunque, offre sempre meno ai giovani soprattutto in termini di retribuzione. Se i trentenni degli anni Ottanta guadagnavano circa il 20% in meno dei loro colleghi over 50, oggi quella distanza è raddoppiata con un gap salariale tra generazioni che arriva al 40%. A fotografare l’odissea dei giovani lavoratori alle prese con un mercato del lavoro sempre più anziano ed esclusivo è uno studio a firma di Nicola Bianchi (Northwestern Kellogg School of Management) e Matteo Paradisi (Einaudi Institute for Economics and Finance). L’indagine mette in fila le diverse chance in termini di carriera tra le generazioni.

Si registra come l’allargamento del divario salariale per età sia associato a un rallentamento delle carriere dei lavoratori più giovani, mentre quelle dei lavoratori più anziani sono migliorate. Dal 1985 al 2019, la probabilità che i lavoratori più giovani si trovassero nel quartile più alto della distribuzione dei salari è diminuita del 34%, mentre la stessa probabilità, per i lavoratori più anziani, è aumentata del 16%. Inoltre, la probabilità che i lavoratori più giovani ricoprano posizioni manageriali è diminuita di due terzi tra il 1985 e il 2019, mentre è aumentata dell’87% tra i lavoratori più anziani. 

Detta in altra parola significa che lo spazio per le nuove generazioni è ancora occupato dalle vecchie. 

Ho avuto la fortuna di formarmi in una delle più prestigiose università d’Europa, la Sapienza, e lì l’opportunità di inserirmi facilmente nel mondo del lavoro in ambiti scelti e voluti da me. Quindi da subito ho fatto un lavoro che mi piace e nel quale ho investito e continuo a investire.

Oggi vedo le 25enni della mia provincia un po’ sperdute nella “selva oscura”. In tanti dicono che siano proprio loro, i giovani, a non avere voglia di lavorare “perché il lavoro c’è”.

Io dico, invece, che la verità è sempre nel mezzo. Probabilmente i giovani di oggi sono poco invogliati e poco spronati. Non riescono a superare quella fase si salto di qualità dove la famosa spinta devono metterla da sé. Il sacrificio lo vedono inutile rispetto a un obiettivo impossibile da raggiungere.

La verità è anche l’assenza significativa di mater e pater familias sociali (una politica coinvolgente e attenta) che diano coraggio e sogni a questi ragazzi.

Ricordo un venerdì dello scorso autunno, quando andai a bere un drink con due amiche in un locale di Mattinata. A noi si unirono giovani ragazze del posto. Elena, una di loro, si lamentava dicendo che non fosse capace di fare niente.

Mise a nudo tutti i suoi limiti che si era costruita e capimmo che, al di là della famiglia, lei avesse bisogno di un supporto esterno, sociale. Cercammo di incoraggiarla.

Elena mi comunicò, dopo qualche mese dal nostro incontro, che sarebbe partita per un’esperienza di lavoro al nord.

Le feci il mio in bocca al lupo.

Io credo che Elena avesse solo bisogno di un input, ma ci abbia messo tutta sé stessa per riuscire in questa opera. E ci sta riuscendo davvero.

Ho raccontato questa breve storia per dire che, in via generale, non sono i giovani a non aver voglia di lavorare, ma forse è la nostra società che mette al centro questioni meno utili lasciando i ragazzi senza riferimenti.

La politica e le istituzioni provino a parlare di più con loro, a dialogare, a comprenderne sogni e speranze. Le vecchie generazioni si fidino di più delle nuove. E forse potrebbe avvenire una virata importante per il miglioramento dell’assetto del mercato del lavoro.

Non si tratta di assumere nuovi impiegati, operai…(il posto fisso di Checco Zalone!) ma di intravedere la modernità, progettazioni, il nuovo modo di fare impresa, il mondo del lavoro che cambia, nei modi, nei tempi, negli strumenti.

I ragazzi sono tanto bravi ma poco arrabbiati. I governi vietano tutto e come ricompensa gli sarà lasciato un mare di debiti e un ambiente devastato. 

L’innovazione è il fulcro della nostra epoca. E giovani sono la risorsa più importante per poterla interpretare. Crediamo di più in loro. Ma davvero. E forse l’Italia e la nostra provincia avrebbero più aspetti positivi da narrare e nulla da invidiare al resto dell’Europa.